Presentazione
Abbiamo voluto avviare a Mestre un nuovo progetto, teso a documentare la cultura artistica della nostra città, con l’obiettivo di colmare alcune lacune e disattenzioni del passato. Venezia, infatti, è stata ed è palcoscenico di prestigiose iniziative espositive: troppo spesso, però, ha trascurato di ricordare e valorizzare i “suoi” artisti. Ebbene, Villa Ceresa è lo spazio che l’Amministrazione Comunale ha deciso di dedicare alle più valide esperienze artistiche della città, terraferma e laguna, sia di oggi che del più recente passato.
Ecco, quindi, che dopo Vittorio Felisati presentiamo ora Cosimo Privato, un artista che ha radici solide nella nostra città e che ha animato la vita culturale veneziana nella prima metà del ‘900. È questo un periodo poco indagato, a differenza degli anni ’40-60 a cui il Comune di Venezia ha dedicato Officina Veneziana, la mostra allestita a Palazzo Fortuny nel 1997.
C’è tutto un patrimonio ancora da esplorare e da conoscere meglio.
Qui a Villa Ceresa abbiamo iniziato a farlo, nel duplice obiettivo di rendere un doveroso omaggio agli artisti che hanno fatto la storia culturale del nostro territorio e, contemporaneamente, di dare strumenti di conoscenza e di confronto ai giovani su cui pesa la responsabilità del futuro artistico della nostra città.
MARA RUMIZ
Assessore alla Cultura
Comune di Venezia
COMUNE DI VENEZIA
Assessorato alla Cultura
Assessore
Mara Rumiz
Direttore del settore Beni e Attività
Culturali Educative e Sportive
Giandomenico Romanelli
Dirigente del settore
Sandro Mescola
Funzionario coordinatore
di Mestre Angela Fiorella
Ufficio amministrativo
Daniela Voltan
Segreteria organizzativa
Maria Cristina Moreschi
Ufficio stampa
Davide Bittner
Francesca Scopece
Testi
Paolo Rizzi
Si ringraziano i collezionisti che hanno consentito la realizzazione della mostra, in particolare Sahara Spesso e la figlia del pittore, Valeria Privato Franceschi e suo marito Roberto Franceschi, per la preziosa collaborazione e disponibilità.
Cosimo Privato
Qui a Villa Ceresa, per il centenario della nascita di Cosimo Privato, ci sono due mostre. Una è visibile: ed è quella che allinea i quadri che il pubblico può ammirare. L’altra visibile non è: ci si presenta come una sfilata, un po’ ingiallita, di vecchie foto e di vecchi ritagli di giornale. E’ da quest’ultima che vorremmo partire, proprio perché essa può diventare un complemento – ahinoi non tangibile – delle qualità non del tutto manifeste del pittore. Si tratta di quadri, spesso bellissimi, che sono emigrati: forse all’estero, chissà dove.
Essi testimoniano di un fatto importante; intorno al 1924-30 Cosimo Privato era circondato da una grande stima e, pur ancor giovane, anzi giovanissimo, era corteggiato dai mercati e onorato dai Premi Ufficiali.
Gino Damerini, che era allora un po’ il “patron” della critica d’arte a Venezia dopo il “buen retiro” di Barbantini, ebbe a scrivere: “Privato è il più dotato dei pittori veneziani della nuova generazione”.
Naturalmente quelli erano per l’arte, e in genere per la cultura veneziana, tempi grami. C’era una crisi economico-sociale che risentiva del peso enorme sopportato dal Veneto durante il massacro della Guerra Mondiale (e Mussolini, seguendo la via tracciata da Einaudi, aveva tagliato corto: niente aiuti al Veneto). C’era, anche di conseguenza, una crisi profonda della cultura. I vecchi “parrucconi” dell’Accademia (compresi i Ciardi e Nono) erano stati spazzati via dal gusto di regime. A Roma, come a Milano, imperava il “Novecento” di Margherita Sarfatti. Sironi e Carrà avanzavano con prepotenza; e si cominciava a stimare quello spilungone allampanato di Morandi. La cattedra di Tito era vacante all’Accademia: i veneziani pensarono ad Alessandro Pomi, seguace di Zorn e Zuloaga, pittore propriamente “accademico” (e mesto di carattere) ma da Roma il Duce impose (1927) Virgilio Guidi. Era una scelta probabilmente giusta, ma finì per mortificare ancor più la nidiata dei “pulcini” della pittura, già orfana di Gino Rossi e, da quel 1927, abbandonata anche da Semeghini.
Quei “pulcini” avevano il loro pollaio, se così si può dire, nelle soffitte di Palazzo Carminati, succursale (alquanto indegna) di Ca’ Pesaro eletto” a museo malgrado il lascito della duchessa Felicita Bevilacqua La Masa.
Cosimo Privato e Fioravante Seibezzi erano i più fortunati: i soli che vendevano, cioè che venivano richiesti dal mercato (in verità i compratori locali erano soltanto due: Moretti e Radi). Gli altri languivano nelle stanze-atelier: erano in quel 1927 Juti Ravenna (che letteralmente pativa la fame), Bergamini, Villa, Panizza, Mori, Da Venezia.
Uno di loro, Panizza, qualche anno dopo morì pazzo.
Con loro c’erano altri compagni di strada: i Novati, Varagnolo, Dalla Zorza. Erano quasi tutti tagliati fuori dal circuito nazionale delle Mostre: dipingevano alla maniera veneziana, cioè non alla moda. Non seguivano nè il “Novecento” nè i “Valori plastici”; nè erano francesizzati come i “Sei di Torino”; nè vivacchiavano all’ombra di una fantomatica “Scuola romana”. Quando, sempre in quel 1927, arrivò Virgilio Guidi per prendere possesso della sua cattedra all’Accademia, quei giovani artisti si sentirono ancor più spaesati. Di Privato un maestro come Ettore Tito aveva elogiato pubblicamente il talento; ma era ormai in pensione, anche se non aveva ancora completato il suo grandioso soffitto agli Scalzi. Come prospettiva massima, per Privato e i suoi amici, c’era la Biennale. Privato, assieme a Seibezzi, fu il primo a passare le forche caudine della giuria e ad essere ammesso all’Esposizione: era il 1926, l’anno in cui (per dare un’idea del gusto imperante) i posti d’onore per gli italiani erano riservati a Spadini, Selvatico e De Maria, ma in cui esponevano già i vari Carrè, Sironi, Morandi. Gli altri sodali di Palazzo Carminati, cioè la cosiddetta nuova guardia lagunare, dovettero aspettare: Novati e Ravenna il 1928, Bergamini il 1932, Mori il 1934. Che Privato fosse stimato lo conferma il fatto che fu accettato anche nelle edizioni successive della Biennale; anzi nel 1930 fu festeggiato come l’espositore più giovane.
Di tutto questo, oltre naturalmente alla produzione pittorica che rese noto Privato, risulta ben poco, quasi niente, dalla mostra “visibile” di Villa Ceresa. Risulta invece dalle foto (sia pure in bianconero) e, come s’è detto, dal ritagli di giornali con le citazioni dei vari critici, da Damerini a Ojetti. Proprio quest’ultimo, il celebre Ojetti, recensendo la Biennale del 1930 (in cui era esposto, assieme ad altre sei opere, il delizioso “Primogenito” poi acquistato dalla Cassa di Risparmio di Venezia) aveva indicato due suoi poli di preferenza: da una parte Casorati, dall’altra Privato.
Non aveva visto male, almeno da un certo punto di vista: intendeva indicare una pittura colta ed una spontanea. Allora Privato era sulla cresta dell’onda: lo si paragonava ai pittori che poi avrebbero conquistato larga fama nazionale ed internazionale.
Purtroppo non sappiamo dove siano finiti quasi tutti i quadri degli anni Venti e inizio Trenta: e men che meno quel ”Meriggio” che figurò nel 1926 nella sala 20 dell’Esposizione.
Sappiamo che Privato partecipò in quegli anni, oltre che alle Biennali ininterrottamente fino al 1936, alla Quadriennale del 1935, al prestigioso Carnegie Prize di Pittsburg (USA) nel 1935, e quindi in varie città europee (Praga,Vienna,Varsavia, Atene, Sofia) al seguito della Biennale; e prima ancora alla seconda e terza Biennale di Roma (1923 e 1925) e alla Permanente di Milano nel 1924 e nel 1926. Il primo catalogo di cui la famiglia è in possesso riguarda la personale effettuata nel 1930 a Milano alla Galleria Celentano. In quell’occasione Privato espose ben 83 opere, quasi tutte di figura, soltanto alcune di paesaggio.
Nel catalogo della mostra Privato si definisce “decoratore”, citando altri grandi “decoratori” come Michelangelo e Raffaello; e aggiunge: “Anch’io cerco di fare decorazione come loro, ed è per questo che preferisco, quando posso, la tempera alla pittura ad olio”.
Ciò spiega proprio quella fluidità nelle stesure e quel gusto del colore “stemperato” che allora erano una sua caratteristica.
Tra le illustrazioni di quella mostra milanese ci sono “I parassiti”, “Le tabacchine”, “Tappeti di Smirne”, “Sul bianco” (un nudo sulle lenzuola). L’artista preferiva fin da allora le scene di genere, il folclore domestico ed urbano in cui poteva far valere le sue doti di colorista brillante. Un’altra conferma della stima di cui godeva allora Privato è data dal fatto che nel 1927 fu invitato ad eseguire grandi decorazioni a mosaico nel Palazzo Reale del Cairo. Di esse ci restano belle foto in bianconero, d’un esotismo spiritoso vicino al gusto floreale.
È anche per questo, probabilmente, che Privato insisteva nei definirsi decoratore: che significava a suo parere capacità di “tenere” grandi dimensioni murali.
Nella chiesa della Bragora figura una nobilissima pala d’altare eseguita alla maniera di Giambattista Tiepolo: che sia di sua mano risulta dalle foto documentarie, ma ufficialmente la pala resta di “anonimo”.
In realtà Privato ha sempre rifiutato (salvo negli ultimi decenni) uno stile ben definito, cioè inequivocabilmente suo.
Il suo carattere era prensile: s’innamorava di una maniera o dell’altra; e quasi sempre riusciva ad eccellere.
Tra queste maniere (chiamiamole così) se ne possono distinguere alcune, anche se quasi mai nelle foto (e negli stessi quadri) risulta con precisione la data.
C’è anzitutto il gusto favrettiano, che porta a risultati spesso eccellenti. La tematica è in genere vernacola: “Le sartine”, “La cucitrice”, “La signora si veste”, “Il club” (i bambini a circolo intorno alla maestrina). Quel che spicca è il colorismo frizzante, ben orchestrato sugli accordi di tono e sui contrappunti vivaci.
Si tratta -è chiaro- di un revival dettato da un gusto nostalgico (Favretto era morto mezzo secolo prima) che permaneva nel mercato: ma Privato vi si trovava a suo agio, lui del tutto alieno da ogni modernismo, assolutamente lontano dalle cosiddette avanguardie.
Qualche altra volta prevale un timbro alla Ettore Tito, ad esempio nel poderoso sottinsù dell’ “Uomo del bove” esposto alla Biennale del 1935. Quasi sempre, comunque, l’intonazione è intimistica, anche se qualche volta l’artista si apre ad un’ariosità vedutistica, come nel formicolio brillantissimo di un grande quadro (anch’esso come gli altri andato disperso e oggi introvabile) che raffigura il Campo San Polo visto dall’alto.
Quando Privato si cimenta negli scorci veneziani, come quello (più volte ripetuto in varie versioni) della scena favrettiana degli sposi che montano in gondola, la pittura si fa liquida, scioltissima, pervasa da una gestualità che diremmo settecentesca.
Altre volte prevale un gusto più sofisticato e mondano: ad esempio nelle serie di ritratti di nobildonne, eseguiti secondo una certa moda alla Selvatico e alla Laurenti allora ancora ben accetta a Venezia. Non vanno trascurate le derivazioni secentesche, come nella “Susanna e i vecchioni” (in più redazioni) dove c’è un’eco del Guercino nello sbattimento dei chiaroscuri. Ma poi ecco, come in un bellissimo “impromptu”, una bellissima impressione di due fidanzati sul prato: è la gran maniera post‑impressionista di Zorn e di altri pittori celebrati all’inizio del secolo. Di contro s’affaccia, in alcuni quadri intorno al 1932, un modo affettuoso e insieme ironico: vedi la deliziosa coppia di sposini (“Oggi sposi”) in treno, esposta appunto alla Biennale del 1932. Insomma: Privato ha molte frecce al suo arco. Può prendere qua e là quel che gli occorre: ma il piatto che serve è spesso di prim’ordine.
Quando poi si dà alla Pittura pura, come nel caso dell’abbozzo del nudo di schiena del 1934, ne risultano valori che vanno al di là del tempo. Certo: Privato si conferma anche in quegli anni Pittore nostalgico e, se così si può dire, passatista: ma sempre e comunque pittore-pittore. A lui non importa se De Chirico veleggiava verso tutt’altri lidi ben più intellettualistici; se Sironi rappresentava poderosamente le sue squallide periferie milanesi; se Morandi affinava le sue sensibilissime sintesi formali e cromatiche. Non voleva nemmeno vedere gli “exempla” di un passato glorioso: i Van Gogh o i Gauguin, e men che meno (figurarsi!) i Munch e gli Ensor che pur gli si presentavano davanti alle Biennali.
Si pensi: Privato era coetaneo di Lucio Fontana! Bisogna giudicarlo proprio e soltanto sul piano della pittura pura: e sempre dentro una civiltà del colore che era allora categorialmente veneziana. Il resto poco importa. E in fondo poco importa se con il tempo la qualità si abbassa, cedendo a certe sollecitazioni di mercato e finendo per impantanarsi in un bozzettismo venezianeggiante gustoso sì, ma privo di profondità.
Quelle che restano e che contano sono le opere migliori.
Lui, dei resto, era cosciente di questa sorta di declino cui andava incontro: dipinse fino alla vecchiaia con probità professionale. Si chiudeva nel suo studio dove conservava nostalgicamente qualche brano felice nella penombra, tra mucchi di quadri e vecchie cornici (e tanta polvere). Così fino al 1971, quando ci ha lasciati; e quando, su richiesta della vedova, arrivai lì, nello studio a fianco del Fontego dei Turchi, disvelando per la prima volta le sue vecchie “scartoffie”. C’era anche un quadro, incompiuto, sul cavalletto.
Privato non esponeva in personale dal 1946. Le avanguardie tipo Vedova e Tancredi lo avevano sepolto vivo. Fu un tuffo al cuore per me, quella volta, entrare nello studio di Privato: mi pareva di scoprirne impudicamente le intimità nascoste.
Ora bisognerebbe parlare anche della mostra “visibile”, allestita alle pareti di Villa Ceresa. Ma mi sembra giusto lasciar parlare il pubblico: cioè non imporre giudizi precostituiti sulle opere esposte. Ci sono vari quadri degli anni Trenta, che credo vengano giudicati i migliori, tra cui almeno quattro-cinque di assoluto valore (compreso un autoritratto in penombra); e ci sono altri di questo lungo dopoguerra, in cui Privato s’è lasciato andare al gusto (come dire?) manieristico del bozzetto frizzante e spiritoso.
S’è voluto documentare in sintesi un po’ tutto il cammino dell’artista, anche se le opere provengono soltanto dalla famiglia e da un collezionista di Bassano del Grappa. Date quasi non ce ne sono: sono state indicate nel catalogo sulla base di raffronti e di impostazioni stilistiche.
Proprio questa scelta di dipinti ci conferma che molto c’è da fare per Privato come per altri pittori della sua generazione. A chi tocca metter ordine ad un terreno abbandonato com’è la pittura veneziana della prima metà del secolo (e magari anche di fine Ottocento)? All’Università? Al Comune, cioè al museo di Ca’ Pesaro? La prima è francamente (e vergognosamente) latitante; il secondo, oltretutto, non ha sedi espositive importanti e pochissimo personale competente. Tante cose, oltre a Privato, sono ancora da studiare. Purtroppo quel che si fa (specie in sede universitaria) o è dettato da interessi particolari, non sempre chiari, o segue un andazzo di gusto.
Perché non dare ad un bravo laureando (o meglio ad uno specializzando) un compito di revisione e documentazione storico-critica? Perché non avviare, anche con i mezzi informatici, una ricerca dettagliata?
Quella che vediamo qui a Villa Ceresa è un’iniziativa meritoria, degna del massimo plauso: ma dovrebbe essere soltanto l’inizio di un metodico lavoro di ricostruzione della cultura artistica veneziana di questa prima metà del secolo. Bisognerà pur svelare un giorno i piccoli (e magari grandi) tesori sepolti che si nascondono nei filoni più abbandonati della civiltà veneziana.
PAOLO RIZZI
Ottobre 1999